Articolo delle dott.sse Manuela Padoan e Federica Zanella
Per moltissime famiglie si avvicina il momento della scelta della scuola superiore e si sente spesso, soprattutto nei genitori ma anche nei ragazzi, molta agitazione o, potremmo dire, prestazione da scelta corretta. Ma siamo sicuri che ci sia solo una strada, quella giusta, quella da scegliere?
Un timore diffuso: e se la mia scelta si rivela sbagliata?
Le scuole ogni giorno di più accompagnano gli studenti a comprendere quali sono le loro attitudini e le loro capacità, e le occasioni di confronto o di visita delle scuole sono momenti cruciali in cui docenti, famiglie e studenti diventano necessari alleati. Ma quante volte sentiamo gli adulti in terapia dirci: “avrei fatto il liceo se non mi avessero detto che per me era troppo difficile”, “avrei fatto l’artistico se me lo avessero permesso”, “avrei fatto un istituto tecnico e avrei deciso dopo se fare o meno l’università”, piuttosto che “avevo le idee chiare, ma i miei genitori dicevano che non mi avrebbero portato a nulla”.
La scelta della scuola superiore nasconde dietro di sé il peso delle aspettative dei familiari, dei docenti, dei compagni e del singolo alunno stesso
Dal momento in cui ci si prospetta nel futuro e si immagina la potenzialità delle strade ancora da percorrere, spesso ricade invece nella mera misurazione dello stato attuale delle competenze scolastiche dei ragazzi, come a volerli categorizzare e confrontare l’un l’altro. Chiediamo continuamente ai bambini e ragazzi di impegnarsi nel non limitarsi a etichettare gli altri dalle prime impressioni, e poi noi stessi scivoliamo nella stessa tendenza, attendendo il verdetto dal consiglio docenti come se fosse un lasciapassare per una vita di successi o una previsione infausta di un futuro poco sodisfacente.
Proviamo invece a vivere in prima persona, e quindi trasmettere ai nostri figli e nipoti, un significato diverso di questo momento di vita così delicato, ma emozionante: è la prima volta che il ragazzo o la ragazza può scegliere per il proprio futuro, sicuramente accompagnato dagli adulti di riferimento, la prima occasione istituzionale in cui può sperimentare la dimensione della responsabilità.
A 13 anni, però, è difficile sapere con certezza cosa si vuole fare da grandi e può essere utile fare una scuola per provarsi e sperimentarsi in qualcosa che si desidera, anche se ai “grandi” non sembra la strada più corretta.
Le domande utili per avvicinarci ad una scelta: mettiamoci in ascolto, con fiducia
Noi adulti dovremo cercare di sospendere un po’ il giudizio e avvicinare con curiosità i nostri ragazzi chiedendo loro quali materie amano di più, quali temi vorrebbero approfondire, in quale modo trovano più facile e sono disposti ad apprendere (ad esempio lo studio o l’esperienza pratica), cosa li fa tendere verso un indirizzo scolastico piuttosto che un altro, quali amici vorrebbero seguire e quali invece lasciare.
Ma anche chiedere loro quali sono i loro interessi fuori dalla scuola, come si vedono tra 10 anni, in che tipo di occupazione si pensano, ad esempio se a contatto con le persone o in un ambito tecnico, stabile o in movimento, parte di un gruppo o individuale ecc. Domande curiose per comprendere i loro desideri e provare a sostenerli nelle loro sperimentazioni. I ragazzi non sono così sprovveduti come gli adulti troppo spesso li immaginano. La motivazione può permettere loro molte cose e, soprattutto, hanno il diritto di provare e sbagliare.
Ma quanto siamo pronti a reggere una scelta che nel tempo può rivelarsi sbagliata?
Come genitori, quanto siamo disposti a supportare i nostri figli in un’eventuale esperienza di fallimento? Quanto siamo capaci di farlo noi stessi? Spesso sono i genitori a voler indirizzare i ragazzi verso la strada che dal loro punto di vista è più giusta, a volte con l’intento di far fare ai ragazzi ciò che loro non sono riusciti a fare alla loro età, proprio nell’intento di non sperimentare il dispiacere del fallimento. Ma come possiamo pensare di sapere cos’è meglio per l’altro? Pensiamo a quanto è stato importante per noi fallire ogni tanto, quante cose abbiamo imparato di noi e di chi ci circonda in quelle situazioni, quanto ci è stato evidente cosa volevamo proprio quando non lo avevamo ancora ottenuto. Evitare ai nostri figli di provare tale sofferenza, è impedirgli anche di imparare a rialzarsi e di potersi dire, in futuro, “ce l’ho fatta!”.
I 13 anni sono proprio il tempo in cui fare e provare, da soli, come l’età dell’adolescenza fisiologicamente chiede.
Ciò non significa abbandonare i ragazzi e disinteressarsi totalmente alla loro vita ma tutt’altro. Cercare di fare domande, comprendere il loro stato d’animo, scoprire quali sono le loro passioni interessi eccetera. Talvolta è più formativo autorizzarsi una scelta sbagliata che continuare una strada per accontentare l’altro. Perché in fondo se si sbaglia, se si fallisce in qualcosa, cosa dovrebbe succedere rispetto alla relazione genitori figli? Niente, si spera, se non stare gli uni vicini agli altri nell’attraversare le emozioni che ci abiteranno in quel momento difficile della nostra vita.
Domande curiose sincere e autentiche di interessamento verso la vita dell’altro
Anche i ragazzi hanno spesso delle domande rispetto alla vita adolescenziale degli adulti. La vera differenza non è tanto quella di dire “non fare gli stessi errori che ho fatto io”, oppure, “ci sono già passato, ti dico io come si fa”. Ma è proprio dire “sai, a me è accaduto questo e mi sono sentito così… tu come te lo immagini?” Domande curiose sincere e autentiche di interessamento verso la vita dell’altro, anche se quell’altro è “nostro” figlio. Aprire, anziché chiudere con risposte e certezze, che spesso suonano come sentenze, date dall’altro, in modo che se e quando si troverà in difficoltà, ricorderà che lo abbiamo accolto e aiutato e non temerà il giudizio o il rimprovero.
Nessuno può sapere cos’è meglio per l’altro, anche se crede di esserci già passato. Perché nessuno è l’altro. Ognuno è solo sé stesso in relazione con l’altro.